LEGAMI FAMILIARI, CLARICE LISPECTOR
Il mistero della realtà

Clarice Lispector nasce nell’Ucraina occidentale, in Podolia, nel 1920, da una famiglia ebraica. Si considera la più grande scrittrice ebrea dopo Kafka. Muore a Rio de Janeiro nel 1977.
Legami familiari (Laços de familia, 1960) è una raccolta di quattordici racconti brevi. L’immagine in copertina dell’edizione che ho in mano è molto bella, tanto da potersi intendere come un’introduzione alla raccolta: una fotografia in bianco e nero della scrittrice brasiliana, di origine ebrea nata in Ucraina. Una donna elegante, dal viso ovale e magra, in atteggiamento riflessivo, con un filo di perle al collo. Capelli corti, occhi allungati. Un alone di riservatezza la circonda, l’osservatore scruta il volto e cerca di carpirne i pensieri, la personalità, che deve essere molto forte, ma nello stesso tempo celata, un po’ misteriosa.
Le stesse caratteristiche si ritrovano nei racconti. La scrittura della Lispector non si rivela, piuttosto sfugge, bisogna inseguirla e leggere, anche, o forse soprattutto, quello che non è scritto.
Le aperture sono sempre in medias res, come nella migliore tradizione del racconto. Quelli della Lispector sono tutti in terza persona, dove un narratore niente affatto onnisciente non ci fa entrare nei pensieri dei protagonisti. Il narratore osserva dall’esterno e conduce alla rivelazione attraverso il comportamento, gli atti, anche quelli mancati, degli stessi.
Lo svelamento è graduale. Spesso si avverte la sensazione di aver perso qualcosa, di non essere stati attenti ai dettagli, dunque si è costretti a ripercorrere a ritroso le pagine già lette; talvolta una frase, di solito breve, getta una luce parziale, offuscata sul narrato e costringe il lettore a rifletterci sopra, come un presbite che deve strizzare gli occhi per vederci meglio.
I racconti della raccolta sono simili ad abbozzi: all’autrice non interessa l’aspetto esteriore, qualche accenno quando è necessario impressionare l’occhio che guarda, ed è parca anche di nomi. Lei stessa definisce i suoi racconti “impressioni”, e, come si dice anche nella quarta di copertina, questo tratto ricorda le affinità con Virginia Woolf, l’autrice finissima di To the Lighthouse (Gita al Faro) e Mrs Dalloway.
In effetti tutto è sfumato, rimane solo l’essenziale, a volte neppure questo, solo i contorni di esseri umani e animali colti in un momento particolare, senza altre coordinate che aiutino a decifrare quanto sta accadendo. Filtra solamente uno spiraglio di luce tra due porte semichiuse che poi svanisce, lasciando tuttavia la ferma percezione che quella luce la si era vista, eccome.
I finali sono sorprendenti, mai scontati, rimangono aperti sui possibili futuro e passato, a volte basta una parola che, come un punto fermo, costringe a smettere di leggere per riprendere fiato e vedere se il fili tracciati si accordano tra loro.
Non sempre questo accordo è palese, mai ordinario, lascia un po’ con la voglia di saperne di più, si vorrebbe chiedere: “ma è proprio questo che vuol dire?”. Il senso si gioca appunto sul plausibile, sul fatto che non c’è un’unica interpretazione, né un’unica prospettiva di lettura, tanto è ricco il linguaggio, evasivo, allusivo. Si può essere attratti sia dal lato in luce sia da quello oscuro, in quanto hanno uguale rilevanza.
È una lettura impegnativa, perché la lingua è precisa e controllata, ben attenta a non introdurre nulla di più di ciò che è necessario a sostenere la visione.
I legami del titolo appaiono a volte delle catene invisibili che impediscono la fuga verso la libertà, sono familiari perché i protagonisti li conoscono assai bene, seppure non riguardino sempre dei consanguinei.
Ovviamente sono presenti in tutti i racconti, in forma differente: tra persone, oppure tra persone e animali (“La gallina”, “Il delitto del professore di matematica”, “Il bufalo”). Mogli e mariti, una moglie sola, un figlio, una figlia, i genitori, un bufalo e una donna, un uomo – marito e padre – e due cani, uno morto e l’altro abbandonato a causa di un trasferimento, una pigmea incinta.
Proprio in questi legami – forzosi o naturali che siano –prende vita ciò che muove gli attori del mondo della Lispector: l’amore. Non l’amore romantico, né l’amore passionale, né l’amore banale del mondo, ma un amore che non può essere vissuto perché scardina la normale percezione delle cose.
Anche il rapporto della Lispector con i suoi narrati è d’amore.
Succede ne “La gallina”: l’animale, dopo aver goduto della grazia di non essere stata mangiata per affetto, viene comunque uccisa, ma per sbaglio.
Succede nel racconto “La cena”, dove la protagonista sente nascere dentro di sé un profondo trasporto d’amore verso un cieco visto sull’autobus, del tutto sconosciuto; questo sentimento, che si manifesta tanto improvviso quanto intenso e totalizzante, a poco a poco si attutisce fino a scomparire una volta che lei arriva a casa, dove è accerchiata dai poco graditi parenti invitati a cena. Come se quel terremoto emotivo appartenesse a un modo altro rispetto a quello della quotidianità.
Succede nel racconto “Amore”, dove l’amore da solo non basta a raggiungere la piena guarigione da un male oscuro e misterioso.
Eppure la Lispector non condanna, non giudica, osserva, accarezza, accetta.
L’amore non è neppure così forte da evitare che il professore di matematica abbandoni il suo cane e che quindi si senta roso dal senso di colpa.
L’amore che nel racconto omonimo inonda tutti i protagonisti – la donna non amata, gli animali dello zoo, nella loro innocente e non civilizzata percezione del mondo in cui vivono –, non riguarda il bufalo, al quale la donna si consegna per imparare l’odio.
Ciò che rimane di questi racconti è un senso di mistero sulle infinite possibilità a cui si apre ciascuna realtà e l’impressione che ci sia ancora tanto da capire, nella lettura e nella vita.
(Tratto da Un libro per guarire. Quando leggere cura l’anima, Anna Ferrari)
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